Infezioni in gravidanza: quali sono e quando è in pericolo il feto
Una donna che sta affrontando la gravidanza vede il suo corpo cambiare giorno dopo giorno. Ora che porta in grembo una nuova vita aumentano anche le attenzioni da porre soprattutto durante questo periodo. Ci sono infatti, numerose infezioni che se contratte dalla mamma nel corso dei nove mesi, possono poi essere trasmesse al feto con conseguenze anche importanti sulla salute del futuro nascituro.
Rosolia, toxoplasmosi, citomegalovirus, varicella sono tra le infezioni in gravidanza più conosciute, ma non sono le sole. Scopriamo insieme quali sono le infezioni che possono essere contratte in gravidanza, quali sono i possibili rischi per il feto e cosa si può fare per prevenirle.
Infezioni in gravidanza: la quinta malattia e la sesta malattia
Dovuta al Parvovirus B19, la quinta malattia è una malattia esantematica tipica della prima infanzia. Fortunatamente il 70% della popolazione adulta risulta immune. Per chi si ammala in gravidanza, il tasso di trasmissione verticale al feto è del 40%, con un tempo di trasmissione di 4-12 settimane. Le conseguenze possono essere anemia, idrope, morte fetale. Ricapitolando, su 100 gravide infette avremo: 60 feti non infetti, 25 infetti senza nessuna conseguenza, 10 feti anemici con problemi variabili, 2 feti idropici e 3 morti fetali.
La sesta malattia invece, o esantema critico, è un’infezione provocata nella maggioranza dei casi dall’Herpes virus 6, meno frequentemente dall’Herpes virus 7. Non esiste un vaccino efficace per la sua prevenzione.
L’infezione colpisce soprattutto i bambini entro i primi due anni di vita. Dopo un periodo di incubazione che dura circa due settimane, la sesta malattia si manifesta con febbre molto alta per tre o quattro giorni. Poi la febbre crolla e compaiono macchioline rosse diffuse dapprima sul tronco e quindi su tutto il corpo. Lo sfogo esantematico dura circa 24 ore. Il bambino ammalato è particolarmente contagioso nella fase febbrile, e comunque fino alla scomparsa dell’esantema.
In età adulta è estremamente improbabile contrarre questa infezione, anche perché quasi tutti l’hanno avuta nell’infanzia e ne risultano immuni. Peraltro eventuali reinfezioni del virus non comportano alcun pericolo in gravidanza.
Come tutte le infezioni virali, anche la sesta malattia comporta potenziali rischi di aborto e malformazioni per il feto, nella remota eventualità che venga contratta durante l’attesa. Si tratta però di rischi statisticamente irrilevanti rispetto ad altre malattie infettive ben più pericolose in gravidanza.
Infezioni in gravidanza: la scarlattina
La scarlattina è una malattia esantematica causata da un batterio, lo streptococco beta emolitico di gruppo A. A differenza delle altre malattie esantematiche, che sono virali, non dà immunità, e pertanto può essere contratta più volte. Colpisce prevalentemente bimbi tra 3 e 12 anni, con esantema, febbre, mal di gola. L’esantema rosso scarlatto è causato da una reazione dell’organismo alla tossina prodotta dal batterio, ma tale reazione non è presente in tutti, e quindi non lo è sempre l’esantema.
Si trasmette prevalentemente con le secrezioni aeree prodotte dalla tosse del malato, ma il batterio può sopravvivere anche fuori dall’organismo, e quindi ci si può infettare anche bevendo da un bicchiere usato dal malato. Il periodo contagioso va dal giorno dopo dell’insorgenza della sintomatologia fino al suo termine (circa 4-5 giorni) o fino all’inizio della terapia. Risponde bene agli antibiotici (penicilline). Se contratta in gravidanza non dà malformazioni fetali. Se colonizza la vagina può però dare parto prematuro o, se presente al parto vaginale, dare un’infezione neonatale potenzialmente severa. Pertanto in caso di sospetto può essere effettuato un tampone vaginale.
Infezioni in gravidanza: l’epatite B e l’epatite C
Il test dell’HBsAg per individuare la presenza del virus dell’epatite B, è raccomandato e offerto gratuitamente due volte in gravidanza: al secondo mese e all’ottavo. In realtà, l’esame previsto a inizio gravidanza non è fondamentale, perchè il rischio che la futura mamma trasmetta il virus dell’epatite al nascituro durante l’attesa è trascurabile e non vi sono strategie per modificarlo.
Invece, è importante accertare verso il termine della gravidanza se la donna è portatrice del virus, perchè il rischio di trasmissione diventa molto alto al momento del parto, sia esso vaginale o cesareo. In caso di positività della madre, il neonatologo provvederà a somministrare al bimbo entro 12-24 ore dalla nascita il vaccino anti-epatite B e immunoglobuline specifiche. Seguendo queste procedure, il rischio che il piccolo contragga l’infezione si riduce all’1% e nulla osta per l’allattamento al seno.
Il test dell’HCV invece, che rileva la presenza nel sangue di anticorpi contro il virus dell’epatite C, è raccomandato e offerto gratuitamente due volte in gravidanza: al secondo mese e all’ottavo. Tuttavia il problema di come contrastare un’eventuale trasmissione dalla madre al bambino è ancora oggetto di discussione. Si ritiene che il contagio possa avvenire: durante la gestazione attraverso la placenta, in travaglio, al parto, con l’allattamento. Si stima che le due modalità principali siano quelle relative al travaglio e al parto e che il rischio di trasmettere il virus sia intorno al 5%. Tale rischio sarebbe concentrato nelle donne RNA positive (un esame che indica che il virus dell’epatite C è in attiva replicazione). In tali pazienti solitamente si propone il parto cesareo, anche se non è ancora definitivamente dimostrato che così si riduca il rischio d’infezione neonatale.
Contrarre l’HIV in gravidanza: quale terapia
Nel mondo ci sono 33 milioni di infetti, dei quali 22 nell’africa sud-sahariana. La trasmissione verticale madre-figlio avviene al parto, e in Italia passa dal 20% delle donne non in terapia all’1.4% delle donne in terapia e che effettuano un taglio cesareo elettivo e non allattano. La terapia farmacologica retrovirale si avvale dell’assunzione di tre farmaci, non teratogeni. La diagnosi prenatale invasiva delle cromosomopatie non va incentivata, per il rischio di favorire il contagio fetale, ma nelle donne che la richiedano meglio l’amniocentesi che la villocentesi.
Infezioni in gravidanza: la sifilide o lue
Causata da un batterio, il treponema pallidum, prevede una trasmissione sessuale, oppure verticale madre-figlio durante tutto il periodo della gravidanza: due terzi dei feti di madri infette si infetta a sua volta, e di questi un terzo muore. La terapia con antibiotici (penicillina) è efficace. Lo screening in gravidanza è obbligatorio, e si avvale di esami ematochimici: solitamente VDRL e TPHA. In caso di positività, si possono effettuare esami di II livello, come il FTA. Dopo la guarigione, il VDRL si negativizza, mentre il TPHA può rimanere positivo a vita (cicatrice immunologica).
Papilloma virus (HPV) in gravidanza: quali sono i rischi
Un’infezione da HPV, o papilloma virus, in gravidanza non comporta rischi diretti né per la futura mamma né per il nascituro, quando correttamente gestita. Nella maggior parte dei casi, se l’infezione è asintomatica, non è necessario intervenire in alcun modo. Il rischio di aborto o di malformazioni fetali è nullo. Le possibili alterazioni indotte dal virus sono i condilomi e le alterazioni cellulari (displasie) al collo dell’utero. I condilomi sono formazioni dall’aspetto caratteristico di creste di gallo che possono comparire sulla mucosa genitale. In presenza di condilomi esiste il rischio che le secrezioni materne infettino il cavo orale e la laringe del bambino nel corso del parto per via vaginale, provocando una patologia seria per un neonato. Per questa ragione, eventuali condilomi vanno rimossi prima del parto mediante diatermocoagulazione o con il laser, un intervento che si effettua a livello ambulatoriale in anestesia locale e non è controindicato in gravidanza.
Se le lesioni non sono state rimosse per tempo o in caso di recidive, solitamente si consiglia il parto cesareo. Per ridurre le lesioni o le recidive, talora si utilizzano dei farmaci: una delle molecole più impiegate è l’imiquimod, peraltro da usarsi con cautela data la scarsa esperienza in gravidanza (anche se gli studi su animali escludono effetti teratogeni). In presenza di displasie del collo dell’utero dovute a papilloma virus, rilevate dal pap test e confermate dalla colposcopia, ci si regola in base alla serietà della situazione. Se la lesione è a basso rischio tumorale, si attende il parto prima di intervenire, tenendo sotto controllo l’evolversi delle condizioni. Se invece il rischio è elevato, è necessario intervenire nel corso della gravidanza, asportando una piccola porzione di tessuto della cervice uterina per rimuovere la lesione sospetta. L’operazione, fatta con le dovute cautele, non dovrebbe comportare pericoli per il proseguimento della gravidanza. Il vaccino anti-HPV è controindicato in gravidanza e comunque non sarebbe di alcuna utilità in caso di infezione in corso perché la sua azione è preventiva e non terapeutica.
Mononucleosi in gravidanza: come si trasmette
La mononucleosi, conosciuta anche come “malattia del bacio” perché si trasmette attraverso il contatto con la saliva, è causata dal virus di Epstein-Barr e colpisce prevalentemente giovani sotto i 35 anni. La sintomatologia è caratterizzata da: febbre alta, astenia, ingrossamento dei linfonodi del collo e faringo-tonsillite con deglutizione fastidiosa e difficoltosa. E’ una malattia autolimitantesi, che dura 1/2 mesi (ma i sintomi maggiori scompaiono in 2-3 settimane) e non tende a cronicizzare, anche se l’astenia in alcuni casi può persistere per vari mesi. La contagiosità rimane per una settimana dopo la scomparsa dei sintomi più evidenti. Il contagio avviene tramite la saliva: oltre al bacio, occorre quindi evitare l’uso comune di bicchieri o posate. La terapia prevede acido acetilsalicilico come sintomatico e un mese di riposo. Solo nei casi gravi si usano gli antivirali. Non risulta che la mononucleosi comporti particolari rischi per il nascituro anche se viene contratta dalla madre in gravidanza.
Infezioni in gravidanza: la listeriosi
Causata dalla Listeria monocytogenes, batterio presente in terreno, acqua e animali portatori sani, compreso l’uomo (il 5% degli adulti lo è), è una malattia rara (1 caso all’anno ogni 250.000 persone), ma potenzialmente grave (anche letale). Le categorie a rischio sono immunodepressi, anziani, bimbi, neonati e soprattutto gestanti, tanto che queste ultime rappresentano il 30% dei casi di listeriosi. Questa malattia si presenta come un’influenza (febbre, cefalea, nausea, vomito, dolori muscolari), e solo la gravità e persistenza dei sintomi può far pensare alla listeriosi. La terapia è antibiotica. In gravidanza può causare: aborto, parto prematuro (anche nel II trimestre), nascita di feto morto o infezione neonatale (con meningite o setticemia neonatale). L’infezione si contrae assumendo cibo contaminato. Pertanto è prudente evitare quello a rischio, ovvero: latte non pastorizzato, formaggi molli freschi da latte crudo (gorgonzola, brie, camembert, erborinati, messicani), patè, carne e pesce crudo o affumicato, carni cotte lasciate pronte al consumo (come hot dog e salsicce, o i nostri avanzi di un pasto per il successivo), verdura cruda non lavata.
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